Impostare un sistema efficace di marketing analytics non è mai semplice, né, per i professionisti e per le aziende.
Avendo la possibilità, come agenzia di marketing, di lavorare con tante aziende diverse, nel corso degli anni abbiamo visto come in effetti i sistemi di marketing analytics impostati in modo efficace e razionale non sono molti. Spesso il problema è che manca una cultura di raccolta e analisi dei dati, ma altre volte, al contrario, i dati sono fin troppi: la mole di dati analizzati soppianta la loro effettiva utilità, e in questi casi occorre imporre una sorta di dieta dimagrante ai dati.
È quel fenomeno detto data obesity, che oggi rappresenta una delle trappole più comuni in cui cade chi si occupa di data analytics.
Per capire come impostare un sistema di raccolta e analisi dei dati efficace, quindi, occorre ripartire dalle basi: occorre chiedersi qual è la natura stessa delle informazioni che si vogliono raccogliere.
Solo così potremo poi focalizzarci sulla loro effettiva utilità e, da lì, identificare i sistemi di raccolta e di interpretazione dei numeri ottenuti.
Il primo passo: identifichiamo i KPI realmente utili
È vitale, per ogni azienda, avere a disposizione esattamente quei dati che possono essere utili per la sua attività, fase di vita, dimensione. Generalmente, questo tipo di dati viene indicato con l’acronimo KPI, ovvero Key Performance Index.
I KPI interessanti per un’azienda in fase di lancio piuttosto che matura, o che si occupa di servizi immateriali alle aziende piuttosto che di commercializzare prodotti alimentari, saranno ovviamente diversi. Ma cosa sono, in ultima analisi, questi KPI?
A noi piace ricordare che riguardano sempre, in effetti, transazioni.
Quale che sia la natura dell’azienda o il tipo di attività, in ultima analisi le aziende devono concentrarsi sulla misurazione delle transazioni in senso lato, ovvero su tutti quei movimenti con i quali il consumatore si avvicina al brand.
Sono transazioni, in questo senso: il momento in cui un cliente entra nel sito (o nel negozio), si iscrive alla newsletter, richiede informazioni… e via dicendo, fino all’acquisto vero e proprio. Tutte queste azioni hanno un valore, per l’azienda, proprio perché rappresentano passi misurabili in questo percorso che porta, infine, all’acquisto – la “transazione” per eccellenza, quella con il valore più alto.
Non abbiamo, ovviamente, la pretesa che questi siano gli unici KPI da monitorare: altri valori vanno controllati attentamente, ad esempio perché rappresentano campanelli di allarme. Rientrano in questa casistica il numero dei resi, o delle segnalazioni di problemi in generale. C’è poi tutto ciò che monitora l’efficienza dell’organizzazione aziendale.
Tuttavia, troppo spesso si finisce per monitorare troppo, con l’unico risultato effettivo di distrarsi dagli obiettivi reali, ovvero le transazioni.
E questo, in ultima analisi, è quello che devono dirci i KPI: quanto siamo efficaci ed efficienti nel far avvicinare a noi il cliente, fino alla transazione finanziaria vera e propria.
Strumenti di analytics più raffinati… analisi peggiori?
La facilità con la quale oggi possiamo raccogliere i dati è un qualcosa di straordinario, soprattutto sul web. Anche strumenti ormai comunissimi, addirittura gratuiti, hanno potenzialità che poco più di un decennio fa sarebbero stati impensabili.
Il solo Google Analytics mette a disposizione oltre 600 oggetti misurabili, tra metriche e dimensioni. E questo, paradossalmente, è in parte causa del problema della data obesity.
L’analista tende a mostrare un quadro più ampio possibile, visto che gli strumenti glielo consentono con poco sforzo; a uno sguardo superficiale, questo approccio sembra essere quello corretto per chi vuole fare un buon lavoro. Così facendo, invece, si riempiono pagine e pagine di report sostanzialmente inutili, se non potenzialmente dannosi (perché distraggono dai dati effettivamente centrali).
In quanti casi, ad esempio, può essere davvero utile sapere con quale sistema operativo navigano gli utenti? E il direttore commerciale che interesse potrà mai avere nel sapere qual è il tempo di caricamento di ogni pagina del sito?
Quando poi ci si rende conto che il sistema di raccolta dati non ha l’utilità che ci si attende, ecco che spesso si cerca una soluzione… acquistando altri sistemi di tracciamento e analisi dei dati! Si mettono così le premesse per rendere la reportistica ancora più caotica.
Ecco perché è importante capire che la data analytics non è una questione di strumenti, ma di pianificazione.
Mai confondere lo strumento con gli obiettivi
C’è un grande equivoco, infatti, in cui si perdono spesso sia le aziende che molti professionisti: confondere lo strumento usato per la raccolta dei dati con il lavoro marketing analytics stesso.
Diventare data analyst, in altre parole, non significa imparare a usare Google Analytics, Data studio, Hotjar, o a impostare report partendo dai dati estratti da SalesForce, né saper utilizzare qualsiasi altro strumento. O meglio, non solo.
L’uso degli strumenti è, ovviamente, necessario, ma la professionalità di chi si occupa di marketing analytics inizia molto prima. Il data analyst è prima di tutto qualcuno in grado di identificare i KPI effettivamente utili per l’azienda. Solo a quel punto potrà passare alle fasi di lavoro successive: identificare gli strumenti necessari, impostare il sistema di raccolta dati, interpretare correttamente i risultati e infine produrre report adeguati a trasmettere la giusta conoscenza ai destinatari del report.
Conclusioni
La nostra epoca, da una parte, rende disponibili a basso costo o addirittura gratuitamente strumenti estremamente raffinati per la raccolta dei dati, in particolare (ma non solo) per tutto quello che riguarda il mondo online.
Eppure, le aziende faticano ancora a impostare sistemi di raccolta e analisi dei dati effettivamente efficaci.
Un sistema di marketing analytics dovrebbe infatti funzionare seguendo questi passaggi:
- individuare i KPI effettivamente utili da monitorare per l’azienda;
- predisporre i sistemi di raccolta;
- estrarre periodicamente i dati, analizzarli e organizzarli in report comprensibili per il loro destinatario.
Le trappole da evitare sono molte; la più comune è quella della data obesity, ovvero la produzione di report prolissi, pieni di grandezze e misure che non hanno, in realtà, alcuna utilità strategica per l’azienda.
Il data analyst, quindi, non dovrebbe essere un semplice esperto di Google Analytics (o di qualsiasi altro singolo strumento). Deve essere piuttosto una figura capace di ragionare in ottica strategica, partendo dall’identificazione delle necessità informative dell’impresa.